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Paolo Ruffini
Direttore GR-Rai


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site: www.grr.rai.it

e-mail: ruffini@rai.it

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Questione di stile


Quale informazione, quale comunicazione, quale giornalismo nell’era della globalizzazione digitale?

Le nuove tecnologie ci impongono una nuova etica, e persino una nuova nuova estetica?

Oppure il legame fra new media e new economy è solo una questione di numeri, di conti, che oltretutto a volte non tornano?

Troppo domande, forse, per riuscire a rispondere a tutte. Anche perche’se c’e’ una caratteristica di questo tempo e’quella di non avere una risposta, una sola, alle molte domande, troppe appunto, che lo caratterizzano.

La verità è che siamo immersi in un cambiamento che non sempre ci riesce di guidare. Così che non sempre capiamo se quel che ci accade, o quel che semplicemente accade, sia la storia che si fa o la storia che si disfa. La fine del principio, o il principio della fine.

Affacciati come siamo su un futuro incerto, quel che ci conviene è sospendere il giudizio. Coltivare il dubbio. Diffidare dai falsi profeti.

Per parte mia, dunque, quel che tenterò di fare è insieme un racconto e un bilancio.

La prima questione riguarda il rapporto con le nuove tecnologie.
Ed allora, la prima cosa, forse anche la piu’azzardata, se si puo’dire cosi’, che mi viene da dire e’ che al di là di tutto cio’che fa la differenza non riguarda il mezzo (le nuove tecnologie impongono semmai una convergenza) ma il modo, lo stile.

Il problema delle nuove tecnologie è che ubriacandoci di presente rischiano di farci credere che il passato non conti, di farci vivere sradicati pur potendo invece essere essenziali per preservare le nostre radici.

Quanto alla radio, che è il luogo dove lavoro da ormai cinque anni, essa mi sembra incarnare un paradosso: che nella civiltà delle immagini, ciò che puo’cercare di restituire all'immagine la profondità perduta, e riscattarla da una piattezza grigia, è proprio la parola.

Le nuove tecnologie permettono molto, infatti, alla radio. Le permettono di cogliere l'attimo molto più di quanto non riesca alla televisione.

Un corto circuito spazio temporale annulla ogni distanza. Un telefonino vale quanto una telecamera. Un registratore digitale quanto una sala di regia in miniatura. La stessa parola può essere smontata e rimontata. Ed Internet è una miniera di notizie, di suoni, di parole, di dibattito che la radio può circuitare.

Grazie alle nuove tecnologie, la radio è uscita dal chiuso dei suoi studi, ha riconquistato la prima linea, è ritornata imbattibile non solo per la possibilità di raccontare prima degli altri le notizie al grande pubblico, ma anche per la capacità di dare in tempo reale gli approfondimenti necessari.

Laddove la civiltà delle immagini finisce con il confondere realtà e finzione, laddove la tv rivela la propria visione ombelicale del mondo, collocando se stessa al centro di tutto, la radio riesce ancora a distinguere se stessa dal reale, ammette la propria parzialità, non ha la pretesa di congelare la realtà in un'immagine perfetta e alla fine fredda. Non occupa la scena, la racconta. Non crea scenografie, le trova.

Ha scritto il subcomandante Marcos in un saggio pubblicato in Italia dal Manifesto, un saggio assai interesante sia per chi vi si riconosce sia per chi non vi si ritrova, che il mondo globalizzato finisce con l'assomigliare ad un ipercinema, un gigantesco schermo televisivo o cinematografico, uno di quegli schermi in cui è possibile la programmazione simultanea picture in picture, uno schermo dove vengono proiettate immagini simultanee da diverse parti del mondo.

Ecco l'illusione del mondo digitalizzato, globalizzato, appiattito. Il problema è che il mondo non è quello lì, che non è tutto lì.

Non c’è. Non ci può essere, non ci deve essere un padrone del telecomando in grado di mandare in scena un mondo a sua immagine.

In questo senso la rivoluzione di Internet ha mostrato quanto il re televisivo sia nudo.

I padroni dei network ora sanno che c'è una scena dove può andare in onda anche il mondo che loro avevano cancellato.
Prima un evento che non aveva l'onore di finire in Tv era come se non esistesse.

In questo modo i media più importanti hanno creato un mondo tutto loro. Fatto a misura loro. L'atto di in-formare è stato sostituito da quello di con-formare.

Nella globalizzazione frammentata (ossimoro di rara efficacia) le società sono fondamentalmente società mediatiche e i media sono il grande specchio non gia’della società ma di ciò che essa deve mostrare di essere. In essa "ripetere è dimostrare"…

Ma adesso mille altri mondi sono finiti in rete. Sono raccontati via radio.

E poi, soprattutto, il mondo non è uno schermo piatto.
Nessun racconto è possibile senza prospettiva.

È questo che preserva, in qualche modo, la radio dal pensiero unico televisivo.

Il giornalismo radiofonico non pretende di impossessarsi della vita reale. La sua ambizione è allo stesso tempo più mite e più alta.

La sua rimane in fondo una tecnologia più povera. Povera ma non superata. Povera, ma forse per questo più vera.

Ci sarà una ragione per cui i videoclip invecchiano, mentre le canzoni che essi stessi illustrano rimangono. E non sta forse, la ragione, nella capacità della radio di essere la colonna sonora di mille immagini diverse, tutte vere?

Nessun racconto è possibile senza prospettiva. E la radio lascia la prospettiva. Ne lascia anzi più d'una, come è giusto che sia giacché la realtà è in movimento. Non uccide la realtà con l'alibi perfetto di raccontarla, sostituendola con un surrogato; la fa rivivere, piuttosto, con tutte le sue imperfezioni, nella mente di chi ascolta.

La radio, semplicemente, non crede che la tecnologia sia tutto. Non è ancora caduta nella trappola di pensare che solo ciò che i suoi registratori riescono a registrare sia reale.

La sua nuova frontiera, per quel che riguarda l'informazione è quella di essere la colonna sonora del reale, ed insieme lo scrigno di una memoria collettiva.

E sono le nuove tecnologie che ci permettono, o ci permetteranno, di vincere questa scommessa.

Nuove tecnologie vuol dire banalmente la possibilità di trasformare un telefonino in terminale a distanza di uno studio.

Nuove tecnologie vuol dire registratori digitali, e cioè la possibilità di una qualità perfetta del suono, accanto ad una virtualmente infinita possibilità di montare e rismontare suoni e parole trasformati in file audio.
Nuove tecnologie vuol dire accesso in tempo reale ad un grande archivio del suono.

Nuove tecnologie vuol dire la possibilità di un broadcasting digitale, capace di moltiplicare la disponibilità dei canali, di superare gli attuali problemi di interferenza fra emittenti via etere, e di coniugare al suono, alle parole trasmesse, anche dei messaggi scritti.

Nuove tecnologie sono quelle che già permettono la trasmissione di segnali audio dal satellite, e che forse in un futuro più o meno prossimo permetteranno l'ascolto della radio digitale dal satellite non più attraverso impianti fissi e per di più ingombranti, pensati per la ricezione di canali televisivi, ma da piccoli apparecchi, anche in movimento. Dunque anche dalle automobili e con una fedeltà del suono digitale.

Nuove tecnologie vuol dire, per i giornalisti e per i tecnici radio, l'allargamento a dismisura della tastiera a loro disposizione per descrivere la realtà.

Con questo spirito, da alcuni mesi, il giornale radio Rai ha riscoperto e coniugato con le nuove possibilità offerte dalla tecnologia l’antica e abbandonata tradizione reportage radiofonici. Nella presunzione che le immagini evocate con il solo uso della parola e dei suoni siano alla fine più vivide di quelle stampate sulla carta o trasmesse dalle Tv grazie alla loro capacità di essere multi prospettiche.

Ma c'è un'altra frontiera che le nuove tecnologie aprono alla radio: ed è quella della telematica.

Al momento la radio è il mezzo che si interfaccia in maniera più completa con la rete in una prospettiva multimediale.

Sono moltissime le radio che in tutto il modo si sono espanse in rete. Anche in Italia si possono notare interessanti fenomeni di comunità radiofonica che si ritrova a combaciare, per una parte del suo bacino di utenza, con un'analoga comunità telematica.

La rete, con la tecnologia Real audio, non penalizza infatti, non in modo eccessivo almeno, il cambio di hardware (apparecchio radiofonico-computer multimediale); semmai attribuisce al secondo una funzione in più: quella di poter ascoltare il proprio programma di affezione in orario più comodo e non condizionato dalle rigidità di palinsesto. Questo senza nulla togliere all'ascolto tradizionale, anzi. In certi casi il valore aggiunto di un forum in rete, la lettura della posta elettronica, il racconto di notizie, eventi, curiosità della rete, possono diventare materia di programmazione radiofonica.

Ma forse, parlando di Internet, della globalizzazione, e del modo di fare informazione nella societa’ globalizzata, occorre fare qualche avvertenza ulteriore.

Oltre a una grande opportunità, c'è un rischio, un rischio mortale, nell'annullamento spazio temporale che deriva dalle nuove tecnologie. Il rischio di una sorta di pigrizia telematica.

La società telematica ci bombarda, letteralmente, di informazioni. I giornalisti stessi rischiano di essere non più soggetti attivi, ma passivi.

Incollati ai loro computer, separati dalla realtà, rischiano di diventare solo degli smistatori di notizie di cui non conoscono nemmeno la genesi.

Un paio di anni fa, un collega mi lasciò in una busta chiusa un dispaccio di agenzia. Io non ero al giornale. Mi chiamò e mi disse: ti ho lasciato sul tavolo una fonte…

Io sono stato educato ad una scuola diversa. Per me le fonti sono le persone in carne ed ossa. Quelle almeno sono le fonti primarie.

Un giornalismo fatto solo al computer non è vero giornalismo.

In un giornalismo fatto così c’è davvero il rischio che qualcuno alla fine si costruisca il telecomando.

Diceva un grande architetto, Mies Van Der Rohe, che Dio è nei dettagli.

Anche il grande giornalismo sta nella capacità di far capire le grandi cose dai piccoli dettagli.

Ha detto un grande giornalista, Ryszard Kapuscinski, che il racconto è una vera e propria tessitura di voci. "Le nuove tecnologie facilitano enormemente il nostro lavoro, ma non ne prendono il posto. Qualsiasi scoperta o miglioramento tecnico puo’certamente aiutarci, ma non puo’sostituirsi al nostro lavoro, alla nostra dedizione ad esso, al nostro studio, al nostro esplorare e ricercare". Ciò è tanto più vero nel giornalismo radiofonico.
Il vero giornalismo va per strada, e semmai sui libri, per capire.

Ho detto all'inizio come la radio dimostri che non sempre alla più alta definizione del mezzo corrisponda una più alta definizione dell'evento.

Grazie alle nuove tecnologie la radio, pur rimanendo un mezzo a bassa definizione, può perfezionare la sua capacità di raccontare, in profondità.

A patto di non credere che quel che può essere comunicato è solo ciò che i nostri registratori, siano essi digitali o analogici, sono in grado di captare.
Alcuni mesi fa, alcuni giovani colleghi di un corso di giornalismo mi chiesero se i giornalisti potevano essere definiti una elite del sapere.

La mia risposta fu, con una sin troppo facile citazione socratica, che l'unico sapere che s’addice al giornalista è quello di non sapere.

I giornalisti non sono e non devono essere una elite.

Esiste un uso antidemocratico della parola, che fanno spesso gli uomini di potere e gli intellettuali.

Non può essere questo l’uso che della parola fanno i giornalisti in generale ed i giornalisti radiofonici in particolare.

Il giornalista e’un artigiano.

Il giornalista radiofonico - ha scritto poco prima di morire un grande inviato del Giornale Radio, Antonio Affaitati - è una voce che racconta.

Che racconta e che ricorda: la cultura del ricordo è l'unico antidoto, infatti, alla cultura dell'oblio, che trasforma l'informazione in un accumularsi di fatti senza senso.

I giornalisti sono allora i custodi della memoria collettiva.
Con un'avvertenza però.
Non c'è peggior giornalista di chi crede di sapere già tutto. O di chi trucca la realta’per renderla più simile a come la vorrebbe.
Per tornare alla radio.

Ha scritto un grande ascoltatore della radio, Michele Serra, sull'Unità: "La televisione usa la notizia come un drappo da sventolare sotto il naso di gente distratta, mediamente diffidente, pur di rubargli almeno un istante di attenzione, una particola di Auditel. Di qui il tono apoplettico dei conduttori, la ridicola enfasi di siglette elettroniche pompose eppure costipate in tre secondi, un'idea del mondo al galoppo al quale restare appesi in una perenne apnea da rodeo. Di là, pur in tempi non molto lunghi, la benefica sensazione di ascoltare gente che è scesa da cavallo, e lo osserva con salutare distacco: addirittura respirano! Ecco, alla radio le parole respirano, si ossigenano". Ecco la radio che vorremmo preservare, con le sue radici antiche, e la sua tecnologia giovane.

La seconda questione riguardava l'etica e l'estetica dell'informazione.

Anche in questo caso credo occorra andare alle radici.

La libertà di manifestazione del pensiero è inscindibile dalla possibilità della sua divulgazione.

Se l'informazione è potere, la libertà della sua acquisizione da parte dei cittadini significa libertà di apprensione e di partecipazione al potere. E dunque la libertà di informazione è una precondizione per il formarsi della pubblica opinione.

In questo quadro la garanzia di un'informazione pluralista è fondamentale.

Questa è l'unica etica possibile, quella che ci richiama ad un solo grande dovere: il dovere di essere liberi.

Se è vero, come è stato autorevolmente affermato, che l'articolo 21 della costituzione non tutela solo l'interesse di chi utilizza il mezzo di trasmissione del pensiero (un interesse di questo tipo può valere al massimo per l'artista che canta per cantare o rappresenta per rappresentare...) ma anche chi sta dall'altra parte, chi legge, chi guarda, chi ascolta, quale sistema di regole può presidiare questa libertà senza ucciderla con l’alibi di volerla preservare?

Pluralismo è la parola che ricomprende questo sistema di regole

Il nostro compito primario, in fondo, è semplice. È quello di raccontare quel che accade ogni giorno.

Ma a chi e a che cosa affidare, in un regime liberale, il presidio di alcune essenziali regole di deontologia professionale?

A me pare questa la domanda da porsi, prima che sia troppo tardi, nel momento in cui si assiste ad una crisi dei delicatissimi meccanismi dell'informazione? Sempre che naturalmente si creda che alcune regole siano necessarie.

L'avvento della telematica, Internet, lo abbiamo visto, ci porterà di qui a pochi anni vivere in società sommerse da una quantità enorme di informazioni.
In questo quadro, la libertà di manifestazione del pensiero sarà sempre più garantita a livello mondiale.

Il problema della regolamentazione della professione giornalistica riguarderà allora l'attività di selezione di queste notizie, il loro confezionamento ad uso dei giornali e della Tv, degli stessi giornali on line.

Compito dei giornalisti diventerà sempre di più quello di controllo delle notizie, di commento, di interpretazione, in un rapporto fiduciario con i lettori, i telespettatori, i radioascoltatori.

Ma, appunto, tanto più sarà possibile coltivare questo rapporto fiduciario, quanto più sarà vigente un sistema di regole di riferimento capace di distinguere il giornalismo dal diluvio di informazioni (queste sì a volte solo spazzatura) che affollano e sempre più affolleranno la nostra vita.

Un marchio di qualità, di garanzia, dovrà distinguere il circuito giornalistico da quello del villaggio globale telematico. Anch’esso (probabilmente) da regolamentare in qualche modo.

È chiaro, allora, che anche l'accesso alla professione sarà sempre più un tassello fondamentale del sistema. Non per creare una casta. Ma per evitare sia qualcun altro a crearla.



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